Per alcuni potrebbe essere una moda o una tendenza nella cucina di oggi, ma l’apprezzamento per i prodotti sani e genuini pensiamo non abbia un tramonto… Italian Food Experience ha incontrato Raffaele Difonzo, un architetto pugliese che per amore per la sua terra si sta dedicando da diversi anni al recupero delle “farine antiche”; per tradizione e cultura, ma anche per qualità organolettica, che il seme nel tempo ha sviluppato.

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Chi è Raffaele Difonzo?

Una persona come tutte le altre, con alle spalle un percorso solo in parte riconducibile ad un curriculum. Corsi, scuole e studio universitario (laurea in architettura) scelti per un’attenzione a tecnica, creatività e attenzione per l’ambiente. Io stesso non avrei mai immaginato di poter trovare tanto interesse per l’agricoltura come oggi mi sta accadendo.

 

Il lavoro che potrebbe definire il tuo impegno con la natura è “Custode di semi”. Ci racconti com’è nata la tua storia?

In breve, quando ho incominciato ad occuparmi dei terreni di famiglia ho anche cominciato casualmente a venire in contatto con le realtà collegate alla valorizzazione dei semi antichi, della biodiversità in agricoltura.
Le persone che sostengono questo tipo di approccio all’agricoltura lo fanno perché criticano fortemente il modello imperante volto spesso a massimizzare i guadagni rimanendo a stento nei confini e limiti della e di legge.
Non posso definirmi contadino “custode”, c’è chi lo fa con un impegno ed una passione da far paura e per semplice rispetto verso queste persone posso solo definirmi una persona che contribuisce come può.

 

Ci racconti dei progetti che segui e in particolare quello del recupero delle farine antiche? E quali sono in specifico?

Per chiarezza i progetti in atto non sono stati oggetto di finanziamento da parte di enti pubblici o privati. Non sarebbe neanche appropriato chiamarli progetti perché ciò che abbiamo fatto fino ad oggi è stato messo in pratica nel momento in cui veniva pensato, anche se oggetto di ricerca.
Discostarsi dal “convenzionale” in tutti i sensi ha portato alla ricerca di mezzi e metodi produttivi agronomici ed alimentari per ottenere materie prime e prodotti senza compromessi. Voler discostarci dalle spietate leggi di mercato ha portato a ritrovare la fiducia delle persone che sostengono realmente la filiera con il loro lavoro e a poter riconoscere a loro dei prezzi più giusti per il frutto delle loro fatiche. L’alternativa ha quindi avuto riflessi importanti non solo sulla possibile soddisfazione di una domanda attenta ma anche per la creazione di rapporti economici basati su principi di etica e di correttezza, presupposti essenziali per una garanzia al consumatore, non certificata da ente terzo, ma dalla affidabilità delle persone.

Le farine industriali oggi sono purtroppo sotto il mirino di stampa e associazioni che ne denunciano le malefatte. Ciò che posso dire con sicurezza è che i parametri di “qualità” che si usano convenzionalmente nell’industria sono molto diversi da quelli che noi, da consumatori critici, abbiamo scelto. Ad esempio, viene ancora oggi professato in tutte le scuole ed università che le farine migliori sono quelle con alte percentuali di proteine, glutine in particolare, che consente essiccazioni molto rapide e ad alte temperature delle paste e consente anche una lievitazione più spinta dei pani e prodotti lievitati in genere.
Il nostro fisico, se potesse scegliere, sceglierebbe usando criteri molto diversi, volti ad una migliore digeribilità e salubrità…

 

Assieme a te chi c’è nel progetto e dove viene sviluppato territorialmente?

Amici e aziende agricole da un po’ di anni partecipano a vari livelli. Territorialmente siamo su Altamura (BA) ma aziende che collaborano ce ne sono sia in Puglia che in Basilicata.

 

L’utilizzo di materie prime che discendono da un’agricoltura low­input, quali caratteristiche hanno e quali caratteristiche presentano nella tua attività?

La connotazione principale di questa attività è il tornare a ritmi compatibili con il pianeta. Siamo diventati metaforicamente miopi se non proprio ciechi. Siamo bombardati da pubblicità con effetti speciali e colori ultravivaci. Viviamo in un mondo di social, la nostra economia virtuale è diventata centinaia o migliaia di volte superiore all’economia reale, le nostre decisioni su come spendere vengono sempre di più pilotate attraverso il controllo dei nostri gusti ed interessi (cookies).
Stiamo letteralmente spegnendo il nostro libero arbitrio in favore di multinazionali in nome della legge del mercato. L’ubriacatura di bit e modernità assomiglia sempre di più ad una dipendenza da slot machines. Stiamo giocando d’azzardo nel credere di poter comprare tutto e la posta in gioco è il futuro dei nostri nipoti e figli.

L’idea di riscoprire valori antichi non vuol dire arretrare. Tornare a fare il pane in casa o scegliere prodotti provenienti da una agricoltura rigenerativa, significa guardare lontano, puntare sui valori e non sui prezzi, significa sostenersi a vicenda, abbracci veri, altro che likes.

 

Cosa non deve mai mancare nella tua coltura?

Potrei arrivare a non seminare nulla nei miei terreni se l’urgenza diventasse quella di seminare informazione.
La gente ci incoraggia dopo che ha assaggiato i nostri prodotti. Ma, quando abbiamo modo di spiegare le ragioni e l’urgenza di questo lavoro, sentiamo una forma di empatia con le persone, nelle loro parole e nei loro sguardi che ci fa letteralmente venire i brividi.
La cosiddetta “morte bianca” attanaglia le società evolute con centinaia di patologie che dipendono dall’uso sconsiderato di latte, farine industriali raffinate, zuccheri raffinati, sale… le argomentazioni dei nutrizionisti “industriali” che invitano a fare una dieta variata sono la beffa dopo il danno. In sostanza, fanno ricadere la responsabilità sulle scelte del consumatore che non si limita ad un “dolcetto ogni tanto”. Purtroppo però non ci spiegano una cosa molto importante. Tutte queste sostanze creano dipendenza, stordiscono le papille gustative, esaltano la sapidità di prodotti fatti di materie prime senza l’ombra di gusto, di profumo, in nome di una fragranza costante e stabilità dei sapori. La natura invece è cambiamento, la stagionalità di frutta e verdura ci racconta che non possiamo avere sempre lo stesso sapore, la salute passa attraverso sapori delicati, anche i prodotti sani cambiano come cambia la mano di chi li fa.

 

 

Nella tua filosofia, il prodotto è al primo posto. Perciò, quali altri prodotti simili della terra, tipici o locali utilizzi/consumi?

La critica più frequente che mi viene mossa è che i prezzi dei prodotti di qualità in genere sono alti. Effettivamente concordo con tutti che un prodotto che costa poco è, salvo rari casi, una garanzia di “assenza di qualità” ma non sempre è vero il contrario: come si fa ad essere sicuri che un prodotto che costi molto non sia identico a quello che costa pochi centesimi? Non è antisociale o discriminante il prezzo alto?

Questi e tanti altri interrogativi me li faccio io stesso ogni giorno, di sicuro oggi la società civile si sente sotto attacco, la sensazione è ormai che da ogni lato subiamo pubblicità ingannevoli, tentativi di truffe e richieste di soldi non dovuti. Ci si guarda in cagnesco gli uni gli altri ed è sempre più difficile immaginare che qualcuno non voglia speculare appena ne abbia occasione. Per fortuna c’è una quantità impressionante di persone pronte a essere solidali, e non stiamo parlando di ingenui, anzi! Stiamo parlando di persone che si mettono in gioco tutti i giorni, scelgono di non lavorare per una multinazionale a costo di rinunciare ad un lavoro sicuro e si lanciano in un mare di dubbi per rimanere coerenti con i propri principi. Per farla breve la risposta alla domanda è che non è al primo posto il prodotto. Al primo posto è l’altro. Colui per cui io lavoro. Sono le persone, i miei figli in primis. Al primo posto c’è l’essere umano ed il rispetto per la vita. Il prodotto è il mezzo attraverso il quale io esprimo tutto il rispetto che posso avere per gli altri, tento di dare il meglio che posso fare e così facendo mi realizzo ed allo stesso tempo assolvo all’obbligo morale di dare l’esempio.

 

Come si diventa imprenditore agroalimentare e riferito al tuo caso?
Un consiglio per i giovani o per chi vorrebbe intraprendere questo mestiere?

Sinceramente sono alla ricerca io stesso di consigli!!! L’unica cosa che mi sentirei di dire è di avere o trovare passione in ciò che si fa e di fare un passo piccolo per volta. La preparazione, la tenacia, la voglia di farsi conoscere verranno di conseguenza.

 

Si è notato, ormai da diverso tempo, che la tendenza lavorativa è più verso il terziario che verso quello agricolo. In un’epoca poi, in cui c’è un forte consumo di massa e una spinta velocità di dati e di informazioni. La terra, seconde te, cos’ha ancora da insegnare?

Essere moderni non significa rinunciare ai valori ed alle tecniche di una volta. Il mondo agricolo oggi è sotto la cappa buia e triste di una tecnica biocida e contronatura. La sterilità del suolo inevitabile ci porterà a capire che stiamo sbagliando, è solo questione di tempo. Capirlo prima significa solo risparmiare tante vite umane.

 

 

Il tuo lavoro, il legame con la terra, influiscono sulla quotidianità della tua vita privata?

Non lo so perché per saperlo dovrei vivere in parallelo un’altra vita senza il legame con la terra… a occhio direi che qualunque lavoro appassionante coinvolge tutte le sfere senza per questo farle passare in secondo piano o in qualche modo danneggiarle.

 

Come norma di vita e di lavoro è fondante il rispetto per la propria terra, la Puglia. Come questa ti ripaga?

La terra ripaga sempre.
L’uomo generalmente non se ne rende conto e la calpesta ogni giorno. Oggi la cosiddetta “impronta ambientale” misura il consumo di suolo pro capite dell’uomo secondo il suo stile di vita. Se, per esempio, sulla terra avessimo tutti lo stesso stile di vita degli statunitensi, avremmo bisogno di sette pianeti come la terra per soddisfare il bisogno di pascoli, carne, acqua, miniere, legna, senza che le stesse risorse si esauriscano.
Mi fa sorridere l’idea della ”impronta ambientale” intesa in un modo tutto personale. Infatti, mi sono fatto l’idea che alcuni esseri umani camminano metaforicamente con scarpe gigantesche e invece altri camminano scalzi, in punta di piedi. Trovo che la sensibilità delle persone che spiritualmente si avvicinano a quest’ultimo modello sono per me una miniera di informazioni e di ispirazione. In questo senso la nostra terra, intesa anche come tessuto culturale, non è da poco e mi ripaga parecchio!

 

Rispetto ai grandi temi del biologico e della biodinamica, in senso ampio, esiste oggi il rischio di un equivoco legato alla semplice certificazione “bio”?

Viviamo in un’epoca in cui i significati delle parole sono stati tutti falsati. La pubblicità, e l’opera distruttiva dei grandi “comunicatori” in tv, ha modificato la percezione di tanti vocaboli, a furia di prenderci in giro. Dalle “bombe intelligenti” alle “missioni di pace” abbiamo assistito inermi al triste spettacolo dell’ipocrisia diventata istituzionale.
Così, oggi, a sentir parlare della “buona scuola” e di “aromi naturali” si percepisce un sordo e continuo prendere per i fondelli. Non c’è nulla di naturale in molti aromi che per legge possono essere chiamati naturali.
Abbiamo per decenni lasciato che l’industria decidesse come definire cosa, andate a vedere per esempio la definizione di pane (al livello fiscale) e cosa può contenere (oltre ai canonici sfarinati di grano acqua e sale): farine di cereali maltati, estratti di malto, alfa amilasi e beta amilasi, burro, strutto, olio di oliva (questi grassi anche in forma emulsionata), zuccheri (saccarosio e destrosio), latte e latte in polvere, mosto d’uva, zibibbo, uva passa, fichi, olive, anice, origano, cumino, sesamo…

Mistificazione dei significati e etichette poco chiare alla lunga hanno creato una generazioni di analfabeti. Pochi oggi sanno leggere un’etichetta consapevolmente, perché non si vuole che le sappiano leggere.
Non si può più parlare di bio, naturale, perché ci hanno tolto i mezzi per farlo.
Il nostro compito è quello di ricostruire un vocabolario sano, poi di utilizzarlo, poi di mangiarlo.