Giannicola Colucci

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I miei piatti raccontano la storia della mia storia di cuoco e di tutti i grandi chef e ristoranti con cui ho avuto la fortuna di lavorare.

Così si presenta il torinese Giannicola Colucci, Executive Chef del Four Seasons Hotels and Resorts di Saint Louis (USA).

 

Per Italian Food Experience, ci racconti la tua storia?

Piuttosto che raccontarvi la mia biografia, che potrebbe risultare un elenco noioso di luoghi e ricorrenze, voglio segnalarvi le “tappe” professionali che hanno contribuito a rendermi uno chef.

Nascere in una famiglia dove la giornata era scandita dal ritmo pranzo – cena è stato fondamentale. Mio padre è sempre stato il cuoco di famiglia e lo è tutt’ora.

A vent’anni ho avuto l’opportunità di lavorare nella squadra di Angelo Maionchi, Chef del famoso Ristorante del Cambio di Torino: è stato il mio primo approccio al lusso degli ambienti ed all’estetica dei piatti, oltre che al loro gusto. Grazie a Maionchi ho appreso l’importanza di lavorare con velocità e precisione, utilizzando solo prodotti di alta qualità.

Questa esperienza mi ha condotto, tre anni più tardi, a NY City da Lidia Bastianich, dove ho avuto il mio primo vero approccio alla cucina internazionale e alla cucina italiana all’estero. Lì mi sono potuto confrontare con vere e proprie celebrità del settore, quali ad esempio Marco Batali e Daniel Boulud.

Il legame con l’Italia mi ha poi portato, poi, a lavorare ben nove anni a Capri, presso il famoso Hotel Quisisana, il più rinomato del golfo, dove ogni estate si danno appuntamento cantanti e attori anche di livello internazionale: qui ho potuto cucinare per personaggi famosi e celebrità che, fino a quel momento, avevo solo immaginato e sperato di poter avere miei ospiti.

Fondamentale nel mio percorso formativo è stato aver avuto la possibilità di portare la cucina italiana all’estero, prima lavorando presso il Sukotai di Bangkok e poi presso il Taj Group in India: grazie a queste esperienze ho potuto iniziare a creare un mio stile personale, dando concretezza a ciò che avevo imparato sino ad allora.

Una breve, ma intensa, parentesi è stata la collaborazione con Alfonso Iaccarino, presso il St Agata sui Due Golfi, fortemente caratterizzata dall’utilizzo di “prodotti a km 0”, ovvero coltivati nell’orto di proprietà della struttura.

A trent’anni sono diventato executive chef del Quisisana di Capri, ed è iniziata la mia esperienza di gestione “food e beverage” dell’hotel e di coordinamento e direzione di un team che dovevo motivare ogni giorno e per ogni servizio.

Dopo tre anni ho deciso di mettere ulteriormente alla prova le mie capacità di gestione manageriale entrando a far parte di una compagnia internazionale, ed il Four Seasons di Londra è diventata la mia scelta di elezione: rigide regole ed alti standard qualitativi l’obiettivo da raggiungere e mantenere.

Prima di approdare a St Louis, da Londra mi sono trasferito per sette anni a Venezia, lavorando presso l’Hotel Danieli: una grande esperienza di vita e professionale. In quegli anni ho imparato a lavorare a stretto contatto con i sindacati di categoria e con la loro avversione ai lunghi orari di lavoro nella cucina di una grande struttura ricettiva. Lo sforzo è stato ripagato dal fatto di vivere in una città ed un contesto unici, che ho potuto visitare e vivere in tutti i momenti liberi dal servizio. La laguna e lo spettacolo di quella terrazza sono stati adrenalina pura per la creazione di nuovi piatti.

St Loius è stata una scommessa, non era nei miei progetti (anche se tornare a lavorare per la Four Seasons lo era) eppure sono già passati quattro anni da quando sono qui: quattro anni in cui è nata una delle mie figlie, ho potuto confrontarmi con una cultura completamente diversa, ho approcciato ad ingredienti e sapori diversi dal solito, ho stretto nuove amicizie ed arricchito il mio bagaglio professionale ed umano, non senza qualche difficoltà di adattamento ad uno stile di vita totalmente diverso da quello europeo.

 

Da quanto tempo lavori per il Four Season? E che cosa ti ha portato l’essere legato ad una catena ricettiva piuttosto che a quella di un ristorante?

La prima volta che ho lavorato per la Four Seasons è stato a Londra nel 2006, ed è stato subito amore. La Four Seasons è una compagnia che esalta il lavoro dei propri dipendenti, dando loro l’opportunità di operare nell’ambito di una organizzazione altamente professionale, ma sempre attenta a ricreare un ambiente nel quale ci si sente, prima ancora che un dipendente, membro di una grande famiglia che lo supporti, anche e soprattutto sotto il profilo umano. Tutto questo si basa su una fondamentale regola creata dal fondatore di questa compagnia, Mr. Isadore Sharp, il quale nel 1980 ha creato il ‘Golden Rule’: tratta Il tuo cliente come tu vorresti essere trattato.

La Four Seasons ha standard di elevatissima qualità sia nell’attività di accoglienza che nella ristorazione e questi consentono alla clientela di sentirsi parte attiva di una esperienza che vede la soddisfazione delle proprie esigenze come obiettivo finale. Il cliente si sente a casa, comodo e coccolato. Un ristorante integrato in un hotel arricchisce la professionalità di uno chef, in quanto la attività di ristorazione diventa parte di una più ampia “veduta ed esperienza di soggiorno” che deve essere frutto del lavoro sinergico e coordinato di un team, ognuno nell’ambito delle proprie specifiche competenze e funzioni.

 

Un tuo segno distintivo, se c’è, e che cosa non dovrebbe mai mancare sulla tua tavola?

Nel mio lavoro ho sempre curato con particolare attenzione la scelta della materia prima.
L’utilizzo della materia prima è il 40% del lavoro in cucina. Imprescindibile è l’impiego dell’olio extra vergine di oliva, del quale sono sempre attento a scegliere e selezionare le varietà che meglio si adattino a sapori e consistenze della ricetta in preparazione.

 

 

Ci puoi spiegare il concetto di “fattoria in tavola”?

Derivante dal concetto di “prodotto a km 0”, per “farm to the table” si intende la propensione alla riscoperta nell’alta ristorazione delle piccole produzioni di materia prima di qualità, con una selezione quasi personalizzata.

Nell’era della “globalizzazione”, dove i prodotti sono altamente standardizzati, si è fatta strada questa esigenza (di cui il concetto “farm to the table” è espressione) di riscoperta di sapori unici, facenti parte di tradizioni che tendono a scomparire, che implica un rapporto diretto dello chef con i produttori ed un maggiore controllo della filiera. Un uovo ottenuto utilizzando metodi di allevamento tradizionali e personalizzati, cucinato per esaltarne proprio tali caratteristiche, è decisamente più buono di un uovo proveniente da allevamenti intensivi.

Abbiamo il dovere di educare attraverso il cibo e le regole della buona cucina, preservando e proteggendo l’unicità dei prodotti gastronomici.

 

Sono diversi anni che vivi con la tua famiglia a Saint Louis. Cosa conservi dell’Italia nella tua quotidianità e nel tuo lavoro?

Da buoni italiani, in casa facciamo fatica a rinunciare alle nostre buone abitudini e pratiche alimentari, anche se siamo aperti alle contaminazioni statunitensi.
Le mie figlie mangiano pasta tutti i giorni e facciamo il pane di grano duro in casa, cosa che anche molti dei nostri amici con bimbi fanno abitualmente.

La dieta mediterranea resta una scelta di elezione, e non soltanto a dire dei buongustai, ma anche e soprattutto dei medici.
Nel mio lavoro ho cercato di operare una sintesi, in quanto la cultura gastronomica di una città come St Louis è molto radicata ed accetta con gradualità le novità.
Cerco sempre di inculcare nel mio team la cultura dell’utilizzo di materie prime fresche e di alta qualità, con particolare attenzione allo sfruttamento totale dei prodotti, così evitando sprechi.

 

Sullo splash pool del Four Seasons Hotel St Louis, mantenete ancora un giardino di erbe, pomodori e peperoncini? Di cosa non puoi fare a meno e di cosa, invece, ti sei annoiato?

Il giardino esiste ancora, lo voglio fortemente e ne curo i dettagli personalmente.
Nella mia cucina sono imprescindibili erbe ed ortaggi freschi dei quali cerco di esaltare le singole caratteristiche e diversità.
Questa ricerca costante non mi ha mai annoiato.

 

Per il periodo di Carnevale hai proposto “il Carnevale Veneziano a St Louis” presso il ristorante Cielo del Four Seasons Hotel, dove lavori. A volte, credo sia una grossa responsabilità essere il portavoce della Cultura italiana. Ci racconti il tuo punto di vista?

Essere il portavoce della cultura italiana, anche gastronomica, è per me gratificante e ne sento tutta la responsabilità.
L’Italia è una nazione universalmente riconosciuta come culla dell’arte e della bellezza, ma spesso noi italiani all’estero finiamo per apprezzarla soltanto quando siamo lontani.
Devo ammettere che abbiamo la tendenza ad avere poco “senso civico” e a fare “comunità” solo quando siamo all’estero, a differenza delle altre nazioni in cui il senso di appartenenza alla cosa comune è molto più avvertito.

Il Carnevale Veneziano è stato organizzato dalla comunità italiana di St Louis che è molto grande, credo la più grande negli Usa, ed è composta per la maggioranza da giovani professionisti che vivono qui con le loro famiglie.
Sono eventi creati per far conoscere la nostra cultura e per avere occasioni di incontrarsi e conoscere nuova gente.
Ne fanno parte anche molti americani, che non hanno nessun legame con l’Italia se non quello di amare fortemente la nostra cultura, tanto da parlare italiano e partecipare ai vari eventi.

 

 

Come è visto il brand Italia all’estero e secondo te, l’Italia lo promuove bene?

L’Italia purtroppo tende a fare marketing legato più alle singole Regioni ed aziende ivi operanti, piuttosto che alla Nazione unitariamente intesa.
In questo dovremmo imparare dai francesi, dove il vino è “prodotto di Francia” e non della singola Regione dalla quale proviene. Sono pochi quelli che all’estero conoscono le varie Regioni d’Italia, bisognerebbe puntare a promuovere il “marchio Italia” e la cultura che ne è alla base, unitariamente inteso, non solo a promuovere singoli prodotti su base regionale o ancora minore.

La realtà produttiva italiana è frutto di storie, culture, ambienti dove operano una miriade di singoli produttori o piccole e medie imprese: l’eccellenza dei prodotti nasce proprio da questa realtà molto variegata, per cui a mio parere bisogna promuovere unitariamente il valore intrinseco di questa eccezionale differenziazione, e non solo i prodotti nella loro singolarità.

È fondamentale che lo Stato tuteli e ponga l’attenzione sui prodotti gastronomici italiani, con politiche mirate a preservare l’originalità e l’unicità dei sapori e di potenziamento della loro “immagine” all’estero. È l’unico modo per dare valore alle culture diversificate e alle eccellenze del nostro paese di cui questi prodotti sono espressione unica e diretta.

Ho visto moltissime volte falsi prodotti italiani che vengono venduti all’estero come originali, tipo il Parmigiano, salumi, mozzarelle e pasta che non hanno nulla a che vedere con i prodotti venduti sul mercato italiano, ma che sfortunatamente vengono commerciati in paesi esteri senza che il cliente se ne accorga, non conoscendo a fondo il prodotto e molto spesso acquistandolo solo in base al prezzo, magari “fidandosi” di un marchio spesso contraffatto o ingannevole.

 

Rispetto a tempo fa, oggi il mondo del Food è diventato molto ambito. La diffusione delle notizie (blog, libri, social network) e le potenzialità di business e di lavoro si sono moltiplicate. Tutto questo ritieni sia positivo per il mercato?

È positivo se si considera l’aumento di interesse e consapevolezza da parte del consumatore, che è alla costante ricerca di una qualità sempre maggiore. Si è più preparati e più esigenti, anche se, ahimè! Ognuno si sente autorizzato a giudicare come se fosse davvero un esperto (atteggiamento, questo, che si riscontra in ogni settore).
È positivo che ci siano maggiori varietà di business, che si sviluppino nuove idee e nuovi tipi di ristorante.

Credo che, oggi, ci sia più spazio per tutti, ma attenzione alla “selezione naturale” del mercato, anche se purtroppo sempre più spesso legata a sistemi di “review” non sempre veritieri sui siti specializzati, ma questo è un discorso a parte.

Ritengo, allo stesso tempo, che la diffusione di alcuni food network possa essere deleteria per la nuova generazione di chef che si affaccia per la prima volta a questo mondo, in quanto ingenerano una percezione dell’attività completamente distorta: il facile successo porta a ritenere di poter diventare celebrità prima ancora di aver imparato veramente a cucinare, a capire la differenza tra una spezia ed un erba e spesso questi giovani rampanti pensano di essere in grado di giudicare anni di duro lavoro dei veri professionisti del settore.
In proposito, ritengo che sia giunto per la categoria degli Chef il momento di fare una profonda riflessione su metodi e percorsi formativi delle nuove leve, altrimenti sempre meno persone approcceranno questo lavoro con l’umiltà e lo spirito di sacrificio necessari, e sempre più volte ci troveremo di fronte a performance culinarie ad uso e consumo unicamente degli show televisivi, ma totalmente prive di concetti e logiche virtuose, frutto della perdita di vista delle radici delle tradizioni culinarie.

Nel tuo cv si contano esperienze importanti e in tutto il mondo, come per citarne un paio al prestigioso Ristorante Terrazza Danieli presso l’Hotel Danieli di Venezia.

In un’altra intervista dici che “Chiunque può imparare a cucinare, ma gestire una grande squadra è completamente un’altra competenza. Non si tratta di essere il capo, devi avere una mente aperta e incoraggiare la collaborazione in cucina “. Quindi, cosa significa intraprendere la carriera di Chef?
Un suggerimento o avvertimento per chi vorrebbe inserirsi in questo settore o farne un mestiere.

Chef si diventa dopo interminabili ore di lavoro ed apprendistato: spesso a fine giornata desideri soltanto una doccia e poi a letto. Diventare chef (che è ben diverso da essere cuoco) significa innanzitutto avere passione, come richiede il tipo di professione, ma anche avere e sviluppare capacità manageriali, perché bisogna confrontarsi con budget, food cost, orari del personale, impegni last minutes, collaboratori vari e fornitori, essere capaci di implementare costantemente guadagni ed innovazioni gastronomiche, diversificando l’uso dei prodotti e portare il team a migliorare le prestazioni giornaliere.

Lo chef organizza, supervisiona e si assicura che l’operatività programmata arrivi all’obiettivo finale.

Operativamente parlando, il lavoro dell’executive chef consiste nel gestire più punti di ristorazione e, quindi, differenti tipologie di gastronomia, collaboratori provenienti da paesi diversi con culture e metodi differenti.

È un lavoro che consente di viaggiare e sperimentare, che stimola la curiosità e la creatività, creando un contatto immediato e diretto con i clienti.

Raccomando ai miei ragazzi di mettere passione e curiosità nel lavoro, perchè è già duro di per sé, figuriamoci affrontarlo senza le giuste motivazioni. Bisogna ascoltare, osservare ed assaggiare continuamente.

Tutti possono cucinare, ma pochi possono fare di questa professione, perché ogni giorno ci si confronta con richieste e con un mercato in continua evoluzione: senza una mente elastica ed una velocità nell’adattamento si resta indietro.

Chi decide di fare questa professione non smette mai di lavorare, utilizza gran parte della sua giornata per creare e migliorare. Diventa uno stile di vita che anche la famiglia deve affrontare e condividere.

 

 

Secondo te, avendo un occhio aperto sul mondo, qual è l’evoluzione del Food?

È difficile dire quale evoluzione segue il settore food, perché molto dipende dall’area geografica di riferimento. Più che di evoluzione del food, parlerei di evoluzione del mercato, evoluzione dei canali di vendita, che differenziano e poi influenzano le abitudini del luogo.

Qui, nel Midwest si assiste ad una certa tendenza verso ciò che “appare” (o è) più genuino (Organic Food: vedi Whole Food Market), ma è un orientamento ancora ristretto, tanto per i costi della materia prima quanto per le difficoltà ad integrarsi con la cultura gastronomica locale, dove un certo tipo di educazione alimentare è estranea alla grande maggioranza della popolazione.

In grande evoluzione è lo shopping online alimentare, con il servizio di consegna gratuita a domicilio della merce acquistata: questo tipo di approccio alla spesa domestica comporta che la scelta del consumatore sia basata sull’immagine del prodotto che appare sul display e non sul contatto fisico e diretto con il prodotto stesso. È, quindi, necessario conoscere preventivamente ciò che si acquista e diventa importante la fiducia e la fidelizzazione dell’utente finale al “marchio” del sito preferito di shopping on line. Comunque è quantomeno paradossale che, da un lato, la tendenza sia la ricerca di cibi più sani e con determinate caratteristiche e che, dall’altro, ci si orienti verso canali di vendita che non consentono una verifica preventiva della qualità del prodotto da acquistare.

Il mondo del food, a mio parere, subisce evoluzioni cicliche con frequenza quinquennale, proprio perché essendo basate su mode e tendenze che, sempre più spesso, non hanno basi solide, non possono durare più a lungo.

Unico punto fermo resta la cucina tradizionale dalla quale è costantemente possibile trarre concetti innovativi; l’evoluzione del cibo va di pari passo con la cultura, ed oggi la gente viaggia più frequentemente portando con sé “sapori e idee” in grado di influenzare anche culture lontane: sta allo Chef operare una sintesi delle novità portate dalla globalizzazione con le tradizioni culinarie facenti parte del proprio background culturale.

 

Infine, un luogo del cuore che consiglieresti visitare e un prodotto o un piatto che ami particolarmente?

Ai miei clienti americani consiglio sempre di visitare la Puglia (dove sono cresciuto) che in genere non viene inclusa nei tour standard (Venezia, Firenze, Roma).

Ci sono molti piatti che amo particolarmente, ma quelli che restano fissi in mente sono i sapori ed i profumi legati ai ricordi dell’infanzia, come la pasta fresca fatta da mia madre la domenica.

Ci sono poi dei prodotti che vorrei sempre poter portare in valigia in ogni viaggio, come, per esempio, la burrata di Andria, il pane di Altamura, le alici di Cetara, l’olio extra vergine del Garda, il formaggio di Fossa, il capocollo di Martina Franca, per citarne solo alcuni.