“Ristorante specializzato nella cucina ‘di mercato’ con stile italiano”: è così che si presenta l’OBE Restaurant di Jean Claude Oberhammer, un italiano dall’altisonante nome franco-tedesco che in Spagna, a Barcellona, ha trovato le basi per dare vita ad una sua grande passione, la cucina: ha aperto il suo ristorante nei pressi del mercato di Santa Caterina, luogo tipico della città catalana.

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Scopriamo cosa vuol dire parlare di Italian Food Experience all’estero, attraverso la testimonianza di Jean Claude.

 

OBE Restaurant

OBE Restaurant

Ci racconti come nasce Obe Restaurant e soprattutto la tua storia, il tuo presente e i tuoi piani per il futuro?

Sono nato a Cortina d’Ampezzo. Ho mosso i miei primi passi all’interno del locale di famiglia, un bar-pasticceria-gelateria molto conosciuto nel centro del paese.

I miei genitori hanno sempre avuto molto chiara l’idea che bisognava lavorare durante le vacanze estive e invernali per dare una mano alla famiglia; un po’ lavando tazzine e piatti, un po’ in pasticceria e un po’ dietro il bancone ho iniziato a prendere contatto e a trovarmi a mio agio nel clima della ristorazione e imparare tanto. Vedevo le facce dei clienti e ascoltavo le chiacchiere del personale. 

Non ho mai smesso di imparare: anche durante l’università, a Venezia, ho sempre lavorato nell’osteria sotto casa, facevo il cameriere, giocavo a scopa con il proprietario e copiavo i suoi piatti, che riproponevo nelle cene a casa con amici.

Ho deciso di studiare architettura e ho completato gli studi allo IUAV di Venezia; in breve, ho deciso di trasferirmi a Barcellona, destinazione preferita di tutte le migrazioni di architetti d’Europa, grazie al suo boom edilizio dell’epoca: in pochi mesi già facevo praticantato in uno studio e avevo imparato uno spagnolo più che decente. 

Le cene fuori con gli amici e a casa continuavano; escursioni alla ricerca di nuovi ristoranti da provare e visite a cantine di vini erano e sono tra i miei passatempi preferiti. 

Credo che la voglia di aprire un ristorante e la convinzione di potercela fare le abbia sempre avute.

Dopo un po’ mi resi conto che Barcellona avesse più bisogno di un buon ristorante italiano, più che di un altro architetto forse destinato a stare dietro a un computer agitando un mouse fino ai 45 anni. Crisi del settore della costruzione (messaggio divino): era arrivato il momento di cambiare. Dopo un anno dal mio ultimo lavoro in uno studio di architetti, nasceva l’Obe, un ristorante italiano di altissima qualità che rispecchia totalmente i miei sogni e la mia personalità.

Sono ormai piú di 6 anni che ho aperto e sono passati velocemente, ma anche la città cambia in modo rapido, così come le persone e le loro necessità sono in continuo cambiamento e adattamento.
Barcellona è una grande piscina con milioni di turisti e più di 7.000 ristoranti: bisogna adattarsi. 

Ho dei progetti nuovi per il futuro anche se, per il momento, sono top secret.

 

OBE Restaurant si trova nella zona di Santa Caterina Ribera di Barcellona, vicino al mercato di Santa Caterina. Una zona che rivive grazie alla ristrutturazione degli architetti Enric Miralles e Benedetta Tagliabue. Tu sei laureato in Architettura allo IUAV di Venezia. La scelta di aprire il tuo ristorante in quel luogo è stata una coincidenza?

La scelta della location è una fase importante. Ho impiegato mesi prima di trovare un locale che rispondesse alle mie necessità. Avevo in mente qualcosa di non troppo grande, con una piazzetta davanti che gli desse una bella apertura e buona luce, con due tavolini fuori; inoltre, volevo che di fianco ci fosse pure il nuovo e restaurato mercato di Santa Caterina avrei fatto Bingo: così è stato.

 

 

Mi viene da pensare a Gianfranco Ferré che, dall’essere architetto, è stato un esempio di eccellenza della moda italiana. Cosa ti ha portato dal percorso di architetto a investire nella ristorazione? E perché hai aperto un ristorante piuttosto che intraprendere la carriera di chef?

Giustamente si possono citare molti architetti che hanno intrapreso le professioni più diverse. La ragione la si può trovare nell’estetica, nella sensibilità, nella completezza della carriera universitaria e lavorativa di un architetto: geometria, arte, informatica non possono non essere utili per la maggior parte dei percorsi.
Solo per fare qualche esempio, mi sono occupato personalmente della decorazione del ristorante, gli interni, l’illuminazione, la scelta del design per calici e piatti, l’elaborazione grafica del logo e dei menù.

Per quanto riguarda la carriera da chef, forse avrei dovuto farlo dall’inizio e forse è stato meglio così. Mi sento a mio agio nelle vesti di gestore e ho molto rispetto per quelli che hanno scelto la difficile carriera dello chef.
Io posso imparare ogni giorno qualcosa in più, però non è il mio lavoro.

 

Che tipo di clientela frequenta il tuo ristorante? Vuoi raccontarci un aneddoto o un episodio che ti ha colpito e/o divertito?

Il ristorante viene frequentato principalmente da persone del posto e italiani residenti a Barcellona; in più, apprezziamo sempre il fatto che ci sia gente nuova ogni sera che lo scopre per differenti motivi.

Di aneddoti ce se sarebbero tanti, belli e meno belli. Per il momento rimango con un classico: la dichiarazione di matrimonio che fece un cliente alla sua fidanzata davanti al resto dei commensali, chiedendomi in anticipo se potevo nascondermi e registrare la scena con il suo telefonino.

 

Gran parte del mondo vede, nella gastronomia mediterranea, italiani e spagnoli molto simili, quasi “cugini”, ma fra Italia e Spagna ci sono delle sostanziali differenze. Quali sono, secondo te?

Sicuramente  tutti i paesi che si affacciano sul Mediterraneo condividono una cultura gastronomica molto simile data dall’uso delle stesse risorse e dai continui scambi culturali passati e presenti; possiamo dire che ci nutriamo degli stessi alimenti e che siamo cugini con piú di un paese con cui condividiamo il nostro mare, non solo la Spagna.

Le differenze le troviamo nella varietà di realtà gastronomiche presenti sul territorio italiano e la maniacalità con cui vengono tramandate e conservate.

Sicuramente c’è un po’ di campanilismo alle spalle, però non mi è ancora capitato di emozionarmi qua in Spagna vedendo qualche famiglia cucinare come quando vedo una massaia fare la pasta fatta in casa in Italia.

 

Da italiano all’estero, come rappresenti la tua cultura italiana? Cosa ti porti dall’Italia e cosa ti ha portato il non essere del posto?

Con il mio lavoro e cercando di dare un’immagine più autentica e veritiera dell’Italia, con il suo calore, accoglienza e qualità.

A momenti sono arrivato a pensare che il fatto di non essere italiano potesse pregiudicarmi aldilà di una semplice questione linguistica o culturale; con il tempo, poi, ho capito che poteva essere semplicemente un mio limite mentale. Chiaramente ci vuole impegno e bisogna tessere dei tessuti sociali forti per stare bene in un posto, cosa che non si ottiene in poco tempo e senza impegno.

 

Com’è visto il brand Italia all’estero e in Italia?

Il brand Italia è sempre ammirato e apprezzato, se parliamo della qualità che esportiamo e del background artistico che circonda le creazioni italiane. C’è sempre concordanza di opinioni. Ovviamente non c’è solo il brand, c’è la politica, un po’ di presunzione, a volte, e ovviamente la coscienza di essere un popolo di emigranti che ogni tanto si fa sentire abbastanza rumorosamente.

 

 

Che cosa non deve mai mancare sulla tua tavola (mentale)?

Qualcuno con cui condividere i buoni momenti, con cui confrontarsi, cercare originalità, qualche sorpresa ogni tanto e la massima coerenza possibile con se stessi.

 

Con i talent show, programmi televisivi e libri del settore culinario, oggi lavorare nel food è diventato una moda, una tendenza e la società si adatta ed evolve, ma cosa può fare la differenza?

È tutto forse un po’ effimero, si trasmettono idee confuse, tutti tirano acqua al proprio mulino: le grandi imprese, i grandi chef…diventiamo tutti critici gastronomici in poche ore e pochi sanno fare bene il nostro lavoro (a volte mi includo pure io in questa categoria). Ci vendono un prodotto non finito, incompleto, sarebbe giusto riconoscerlo, quindi informarci meglio. Una buona informazione e la curiosità stanno alla base di tutto.

 

Quali consigli daresti a chi vorrebbe intraprendere questo tipo di strada imprenditoriale?

Il consiglio che posso dare è fare una buona indagine di mercato prima di avventurarsi, vivere sul posto per un periodo e imparare usi, costumi e differenze: una cosa che funziona in un ambiente non è detto che funzioni altrove.
Utilizzare gli strumenti di marketing per essere competitivi e munirsi di buona volontà e soprattutto tanta pazienza.